COME E’ NATO TERRA MATTA

COME E’ NATO TERRA MATTA

Storia di un insolito memoriale.
Relazione letta da Giovanni Rabito al convegno di Chiaramonte Gulfi Gennaio 2008.

Non ricordo esattamente quando per la prima volta mio padre ha cominciato a usare la mia macchina da scrivere. Dev’essere stato, comunque, durante o massimo alla fine del 1968.

Io scrivevo poesie e racconti, a quel tempo, e come un vero aspirante scrittore per prima cosa m’ero procurato una macchina da scrivere. Finii addirittura per pubblicare un libro di poesie, sempre nel 68, libro di cui mio padre andava assai fiero e che credo in qualche modo abbia anche influito sulla sua decisione di sedersi a tavolino e cercare di diventare anche lui uno scrittore.

Alla fine del 68 io poi mi trasferii a Bologna, per studiare all’Universita’ (almeno ufficialmente questa era la ragione!) e la mia macchina da scrivere la lasciai a casa. Mio padre subito se ne impossesso’ e si dedico’ anima e corpo alla sua gigantesca impresa.

Lui e’ stato da sempre un gran raccontatore orale. Quando io ero piccolo, per esempio, e mi veniva il mal di denti, lui me lo faceva passare a forza di raccontarmi storie della sua Grande Guerra. Spesso glielo chiedevo io, prima d’addormentarmi: papa’ ma cunti na cosa dell’Africa…

e lui attaccava subito a parlarmi delle scimmie che saltavano e facevano un gran baccano negli alberi della boscaglia, delle iene che ululavano di notte, del leone che incontro’ una volta nella pirrera dell’Ogaden. Per questo alla fine l’inseparabile amico Giovanni Strano, il tenente Sparpaglia, o il sultano di Mustail, per nominarne solo alcuni, in un Pantheon delle mie memorie infantili si collocano decisamente tra i personaggi piu’ mitici e autorevoli, conservando la stessa vivezza e corposita’ di figure ben piu’ vive e reali, quale potrebbe essere stato, mettiamo, Don Carruzzo…

I ragazzi chiaramontani di ora forse non lo sanno ma i chiaramontani della mia eta’ lo sanno tutti chi e’ don Carruzzo. Per chi non lo sapesse, Don Carruzzo era un negoziante della Piazza, che gestiva una specie di piccolo supermercato chiaramontano ante litteram, un personaggio veramente indimenticabile!

Tornando a mio padre: era insomma un po’ un Cantastorie per natura, mio padre. Tracce e testimonianze di questo suo talento si possono riscontrare anche qua e la’, nel libro pubblicato da Einaudi: le storie per esempio che dice di raccontare alla Bruca (le minciate come le chiama lui) per far passare il tempo alle donne nella grotta in cui si sono rifugiati tutti i coloni durante l’avanzata degli americani in Sicilia, dopo lo sbarco.

Cito da Terra Matta, capitolo quindicesimo, pag. 282:

“ Cosi, quanto c’erino li allarme, ci n’antiammo dentro il ricovero; li’ ci sidiammo,e tutta la notte io, il mio piacere era questo: di contare tutte li cose che mi avevino incontrato in vita mia. E tutte li minciate che io sapeva, alla notte li raccontava. E c’erano 2 ragazze ciamelle, che io li conosceva di quanto erano picoli, e la signora Santa, sua madre, e la crante amica mia, donna Angela, conni suoi tre figlie femmine, che la piu’ crante era di 14 anni. Li’ dentra non pareva che era tempo di guerra, ma pareva che c’era il teatro. Perche’ si redeva sempre…”

Oppure il reseconto dettagliato di quello che aveva letto sul giornale. Resoconto che faceva regolarmente ogni mattina ai massari della piana di Ragusa, nel 45, quand’era cantoniere a Malotempo.

Cito, sempre Einaudi, capitolo diciassettesimo, pag. 312: “ Io, alla sera, antava a Chiaramonte e senteva la radio,e sapeva tutte le notizie. E, amme, tutte mi volevino bene propia per questo, che tutte li notizie li sapeva io. E tutte li massare di quei luoche, quello che diceva io, era tutto perfetto!”

Anche da pensionato, a Ragusa, mio padre aveva i suoi posti canonici dove andava a raccontare le sue minciate,

e magari ne ascoltava tante a sua volta. Prendeva l’autobus (in quanto pensionato non pagava nulla) e si andava a sedere a Piazza San Giovanni, per esempio, dove aveva tanti amici con cui chiaccherare. O “nti barbe’ milanes” un barbiere chiaramontano che aveva il salone a Piazza del Popolo, proprio davanti all’Ospedale civile. I clienti e gli stessi barbieri si divertivano sicuramente a sentirgli cuntare queste sue minciate!

Una certa riservatezza, comunque, e un grande equilibrio naturale, facevano si che mio padre non esagerasse mai nelle sue espansioni narrative. Se c’era una qualita’ che lui possedeva veramente in sommo grado era quella del senso della misura, delle proporzioni e delle distanze. Sapeva stare al proprio posto, come si suol dire, e sapeva giudicare immediatamente i fatti e le persone, comportandosi di conseguenza: con serieta’ e compostezza quando era necessario, e con allegria e scherzosita’ quando pareva accettabile.

E fin qui tutto abbastanza ordinario, direi. Quanti nostri vecchi contadini hanno posseduto e possiedono queste qualita’, compreso un grande talento orale nel raccontare e motteggiare e dire “schifienzie”; capaci spesso di arguzie e di finezze espressive di primordine; ricchi di saggezza, senso della realta’, umorismo etc etc

Per non andare tanto lontano si pensi alle parita’, agli apologhi e storielle morali dei nostri villani raccolte dal barone Serafino Amabile Guastella nel suo famoso libro.

La vera novita’ costituita da mio padre sembrerebbe piuttosto quella di averle volute “scrivere” le sue minciate, e non una storiella, o un apologo, o un episodio che gli era capitato, ma tutt’intera la sua vita, dall’A alla zeta, battuta a macchina pergiunta, per poi abbellirla, accrescerla continuamente, ripulirla, sistemarla, suddividendola quasi in capitoli e rilegandola in fogli, in “quaterni” e “libira” numerati etc etc… voleva insomma “scriverla” e aggiungerei pubblicarsela anche in qualche modo! C’e’ indubbiamente qualcosa di titanico e di affascinante in questo, specialmente se si pensa che non c’era e non ci poteva essere alcuna ambizione cosciente da scrittore nella sua operazione.

Si sarebbe messo a ridere lui per primo al pensiero di una possibile pubblicazione o anche di una semplice lettura interessata dei suoi sproloqui da parte di qualcuno che avesse studiato… ad eccezione dei suoi figli, naturalmente, che leggendo avrebbero dovuto e potuto capire e accettare i travagli e le ragioni della sua maletrattata esistenza. Un fatto quest’ultimo che deve aver certo giocato un ruolo importante nel suo accanimento scrittorio. Non avrebbe mai creduto comunque di poter raggiungere un qualsiasi livello culturale, con la sua scrittura, dal momento che nella sua esperienza di tutta una vita la cultura era un qualcosa che apparteneva ai laureati o ai professori o ai giornalisti e via discorrendo, non certo a lui che s’era preso la licenza elementare a 35 anni e che a stento in vita sua aveva potuto leggere il Conte di Montecristo o il Guerin Meschino!

Il senso della misura che possedeva in sommo grado, evidentemente, comprendeva anche e sopratutto un senso della Storia, non solo quella dei grandi eventi della politica, nazionale o internazionale ( di cui s’interessava parecchio e a modo suo si teneva sempre informato) ma quella che cammina a passo lento e senza farsene accorgere, la storia intendo dire delle societa’ che cambiano e si trasformano. Cosi per esempio aveva capito al momento giusto che i tempi erano maturi per mandare i figli a scuola e permettere loro di avere una vita diversa dalla sua, facendogli fare quel salto di classe o di qualita’ che a lui non era stato possibile o permesso fare. Per questo forse si sposo’ e fece i suoi figli il piu’ tardi possibile e guardacaso proprio nell’Italia che stava uscendo finalmente e per sempre dalla disastrosa esperienza del Fascismo. Verso il 35, infatti, quando fece domanda per entrare cantoniere alla provincia e gli venne respinta perche’ non era sposato (per quella famosa legge discriminatoria di Mussolini sugli scapoli e sui senza figli)…

cito da Terramatta, pag. 182: “con li leggie di Mussoline, uno che era senza maritato era lo stesso di essere pregiuricato…”

lui a quel punto commentava:
(vedi sempre Terra Matta, stessa pagina) : “Io non mi aveva voluto maretare perche’ non aveva auto maie soldi e per non gittare li miei figli alla miseria, come ci l’aveva buttato la bonarma di mio padre…”

 

Non voleva sposarsi e fare figli, insomma , convinto giustamente che sotto il Fascismo e con un padre senza una lira avrebbero fatto senz’altro la sua stessa miserabile fine, senza istruzione e senza soldi.

Seppe quindi aspettare il momento giusto e questo momento arrivo’ al ritorno dall’Africa, quando pensava di avere le tasche piene, e sopratutto nel dopoguerra, col posto sicuro e con la bella ebbica che doveva seguire; percio’ ai figli decise subito di dare la piu’ alta educazione possibile, cominciando a mandarli alle Medie, per prima cosa, piuttosto che all’Avviamento.

Vi ricordate? Ai miei tempi c’era ancora l’Avviamento, fatto apposta per i ragazzi che erano destinati al lavoro dopo I quattordici/ quindici anni…

E non solo questo. Poi il Classico, lo Scientifico, l’Universita’. Tutto quello insomma che i suoi figli erano capaci di raggiungere dovevano esser messi in grado di poterlo raggiungere. In questo riusci in pieno bisogna dire. Intuito di primordine e senso della Storia quindi, nella scelta dei tempi…

Una volta riuscitogli il figlio ingegniere un’altro salto decise di fare, ancora piu’ ardito e straordinario e impensabile del primo, quello di mettersi lui stesso a scrivere e a intrecciare insieme la storia della sua vita, per sperimentare, dall’altra parte della barricata stavolta , il grande piacere che lui aveva sempre provato nell’ascoltare storie vere o intricate e appassionanti come le sceneggiate napoletane per esempio. Era un grande tifoso mio padre della sceneggiata e della canzone napoletana in genere, tipo O zappatore, Piscatore e Posillipo, dicintellu vui ecc…

Del teatro di Angelo Musco anche e sopratutto delle storie di cronaca nera che pescava nei giornali o sentiva alla radio o in televisione.

Certo, era meglio non dirlo a nessuno di questa sua curiosa attivita’. Un inaffabbeto che si mette a scrivere, v’immaginate, c’e’ di che rischiare veramente il ridicolo! Di nuovo il suo senso della misura e delle proporzioni!

Cosi si mise a scrivere in silenzio e senza dirlo a nessuno, come si trattasse di una specie di passatempo personale e segreto. Invece di farsi il solitario con le carte, com’era solito, si faceva una battutina a macchina e tutto finiva li… si, battendo a macchina tra l’altro, usando cioe’ lo strumento tecnologicamente piu’ avanzato e moderno che uno allora poteva trovare in circolazione per scrivere: la macchina da scrivere appunto. La penna a biro normale la riservava invece per i suoi diari, delle grosse agende che ogni anno capitava gratis, in giro, e che riempiva in stile telegrafico con gli eventi o con gli appuntamenti piu importanti della giornata, del tipo: oggi ha telefonato Ciovanne o siamo antati a coglire lassine con mia moglie a Castiglione ecc ecc…

Tutti questi diari (una ventina) sono purtroppo andati persi, insieme alla macchina da scrivere.

Ma perche’ usare proprio la macchina da scrivere allora, per l’altra scrittura, quella delle sue memorie !?

Piu’ che per un gesto d’omaggio alla modernita’ tecnologica, io credo che facendo cosi, con l’istinto creativo del vero artista, lui cercasse di distanziarsi il piu’ possibile dalla sua produzione. Faceva un po’ come lo scultore che colloca il piu’ possibile la sua creatura nello spazio per farle prendere aria e darle una vita sua propria, piu’ oggettiva e piu’ reale insomma. Per lui battere a macchina, praticamente, e poi raccogliere e rilegare i fogli in volume, doveva costituire una specie di nascita, di registrazione al comune dell’atto di nascita della sua opera, una ufficializzazione di qualcosa che da vero scrittore sentiva non appartenere soltanto a lui…

E come l’amava questa sua macchina, creatrice di vita! Nella sua camera aveva la boccetta dell’olio per oliarla spesso, una pompetta per soffiar via la polvere dagli ingranaggi e da mezzo ai tasti, piu’ una piccola collezione di nastri che usava e riusava fino alla distruzione piu’ assoluta, non solo sul nero ma anche sul rosso. Aveva infatti un bisogno assoluto di usare tutto lo spazio e il materiale disponibili; la pagina fino ai margini estremi, niente spazi liberi ecc ecc…

Niente andava buttato o sprecato nella sua logica esistenziale, ma non dimentichiamo che questo di non buttare via nulla e’ un costume antichissimo di tutto il mondo contadino, una regola, una legge fondamentale per chi rischia continuamente di tastare la fame.

Forse anche l’uso abbondante e ossessivo del punto e virgola, dopo ogni parola, dipende da questo stesso bisogno. Non solo un espediente per separare le parole, quindi, ma anche un modo per riempire gli spazi vuoti e usare dei segni che altrimenti resterebbero inadoperati.

Il punto e virgola e gli altri segni ortografici a che cosa servivano mai e come si dovevano adoperare seno’?!

Il fatto e’ che piu’ si spingeva nel territorio sconosciuto che e’ la scrittura e il raccontare per iscritto, faticoso e frustrante al massimo per uno che non c’e’ abituato, piu’ perfezionava le sue primitive tecniche narrative, inventandosi lentamente un linguaggio che non e’ dialetto e non e’ italiano, adattando e piegando il suo misero vocabolario a una urgenza espressiva che spesso si fa incontenibile, piu’ e piu’ andava avanti e piu’ e piu’ gusto ci provava in quest’attivita’ misteriosa. Per questo l’ha continuata praticamente fino all’ultimo giorno di vita, come scopriremo tra poco, e sempre con la stessa furia e la stessa passione dell’inizio.

Nei molti e molti anni che ho osservato mio padre “scrivere” e poi convissuto col suo dattiloscritto ( quello per intenderci che ho poi dato all’Archivio e da cui Einaudi ha tratto Terra Matta) mi sono convinto che lui provava un piacere immenso, quasi fisico direi, nel rifugiarsi nella sua stanzetta a meditare sui casi e i personaggi della sua vita, e a sfidare la carta in un tentativo estremo non solo di espressione immediata degli eventi e dei fatti che gli erano capitati ma anche e sopratutto cercando di circoscrivere e rappresentare una sua completa visione del mondo, in maniera da lasciare una traccia sostanziale, un segno importante, del suo esserci stato. Chi e’ stato insomma Vincenzo Rabito e che cosa ha fatto? Come la pensava e quale valore ha avuto?

Le sue piu’ profonde motivazioni psicologiche cominciano forse con l’essere simili a quelle del pensionato che passa le sue giornate a costruire un veliero con degli stuzzicadenti ma finiscono per diventare ben presto quelle dell’artista maturo. Diciamo pure che il suo divento’ col tempo un vero e proprio tentativo di mitopoiesi personale, un messaggio da lasciare ai posteri, una proiezione simbolica del proprio io al di la’ della morte. L’espressione piu’ alta insomma di quell’egocentrismo puro e incontaminato che si trova alla base di ogni produzione artistica che si rispetti. Solo un vero scrittore puo’ comportarsi cosi e questo vuol dire che, anche senza saperlo o senza volerlo riconoscere, mio padre era un vero scrittore!

Bisogna inoltre notare, forse sempre per quel suo senso spiccato della storia e del cambiamento dei tempi, che quest’altro suo salto, molto piu’ al buio del primo, lui guardacaso lo fece proprio al momento giusto. Negli anni sessanta c’era gia’ stata infatti l’esperienza dell’avanguardia e del gruppo sessantatre, in Italia, che aveva svecchiato di molto la mentalita’ letteraria del paese. Quanti scrittori allora avrebbero fatto chissa’ cosa per scrivere alla Vincenzo Rabito, ma mica facile essere veramente analfabeti quando si e’ stati troppo a scuola, non vi pare?!…

Comunque, ci avra’ messo trent’anni, ma anche quest’altro salto a mio padre e’ riuscito ottimamente e molto al di la’ di ogni sua possibile aspettativa. Poteva al massimo sperare che noi figli leggessimo la sua opera e magari la tramandassimo ai nipoti, invece la sua opera e’ andata a finire in libreria e ne parlano bene critici e professori universitari, salto piu’ riuscito di cosi non poteva esserci!

Ai suoi tempi lui si manteneva comunque oltremodo riservato e distante, a proposito del suo scrivere. Quando io, infatti, o qualche mio amico a cui avevo letto qualche pezzo, gli chiedevamo scherzando qualcosa al riguardo, lui semplicemente sorrideva, nicchiava, e alla fine riusciva a non rispondere. Persino quando gli presi via il suo primo lavoro e me lo portai a Bologna per leggermelo in pace, non solo non mi disse nulla ma nemmeno in seguito mi chiese mai che cosa ne avessi fatto o che cosa ne pensassi…

 

 

Arrivato a questo punto bisogna che io mi soffermi un po’ a spiegare come stanno esattamente le cose con il dattiloscritto che poi e’ andato a finire a Pieve Santo Stefano e che alla fine e’ diventato il Terra Matta pubblicato da Einaudi.

Nelle varie recensioni che ho letto fino ad adesso, nei giornali o su internet, dappertutto si continua a raccontare sta storia che la stesura di Terra Matta ha impegnato mio padre per sette anni: dal 1968 al 1975.

Niente di piu’ incorretto. Anche se forse sono stato io stesso, molto superficialmente devo riconoscere, a passare a Luca Ricci l’informazione dei sette anni di stesura, mio padre ha scritto il tutto in tre o massimo quattro anni. Perche’ mai seno’ la sua narrazione dovrebbe interrompersi proprio nel 1970, quando lui ebbe il primo ictus nel 74, dal quale tra l’altro recupero’ prontamente, per poi morire nell’81? … Avrebbe avuto tutto il tempo per raccontare gli ultimi anni della sua vita, non vi sembra, e invece non fu cosi. Perche’ mai?

Per la semplicissima ragione che di quel suo dattiloscritto fisicamente me ne appropriai io e me lo portai a Bologna, molto probabilmente durante il 1971 o massimo il 1972, per non restituirglielo mai piu’.

Dopo la sua morte, avvenuta come ho detto nell’81, l’intero malloppo me lo portai addirittura con me a Milano, dove abitavo a quel tempo, e in seguito persino in Australia, da dove poi lo riportai indietro in Italia solo per darlo all’Archivio.

In questi ultimi tempi ho riflettuto attentamente su questa faccenda, parlandone anche con molti miei amici di Bologna dell’epoca, che si ricordano dello strano malloppo che mio padre aveva scritto e, per inciso, anche di lui si ricordano benissimo, e di quelle poche volte che mi veniva a trovare e a stare con me, nella mia casa bolognese. Tutto mi porta a un’unica conclusione:

il dattiloscritto di Pieve Santo Stefano, da cui Einaudi ha tratto Terra Matta, e’ stato scritto, senza ombra di dubbio, tra il 1968 e il 1971 e su questo non ci piove!

Ma come reagi’ mio padre e come continuo’ la sua attivita’ scrittoria, una volta privato del suo lavoro?

In un primo momento mi sa che in cuor suo debba aver gioito. Qualcuno c’era almeno che s’interessava alle sue fatiche letterarie. La sua creatura era cresciuta e viveva ormai una sua vita propria, di questo non poteva che esserne contento. In un secondo momento pero’ deve aver cominciato a sentire la mancanza di un gioco che s’era fatto piano piano sempre piu’ piacevole e interessante, forse addirittura necessario.

Comunque, senza scomporsi piu’ di tanto e senza dirmi niente (a Ragusa, durante gli anni settanta, io ci venivo pochissimo o nulla addirittura) e senza naturalmente dir niente ai miei fratelli o meno che meno a mia madre, si rinchiuse di nuovo nella sua stanza e ricomincio’ a battere a macchina daccapo tutta la sua vita, da io sottoscritto Rabito Vincenzo, nato a Chiaramonte Gulfi,

allora provincia di Siracusa ecc ecc

senza aver sotto gli occhi il modello precedente, tra l’altro, giusto adoperando la sua inesauribile memoria, cambiando qualcosa magari, aggiungendo un evento dimenticato, o modificando il suo commento su un fatto o una persona; riusando, insomma, trasformandolo e reinventandolo, l’enormita’ di materiale che aveva accumulato nella sua testa durante la prima esperienza.

Quando poi arrivo’ al presente trasformo’ il suo memoriale in una specie di diario, che aggiornava regolarmente. Questo in pratica fin quasi all’ultimo giorno della sua esistenza, vuoldire suppergiu’ fino al 15 di febbraio del 1981. Lui mori infatti il 18, credo.

Questa seconda versione allargata, qualcosa come 1800 pacene, per fortuna esiste ancora e chi lo sa se un giorno non verra’ essa pure in qualche modo stampata!

Il resto della storia corrisponde piu’ o meno a quanto detto dai giornali: nel 1999 io stesso portai il Primo dattiloscritto originale (sette quadernoni, se ricordo bene) all’archivio dei Diari, e lo consegnai personalmente a Luca Ricci (che poi sara’ curatore della versione Einaudiana insieme ad Evelina Santangelo) perche’ partecipasse al premio che fanno a Pieve ogni anno.

Nel 2000 Fontanazza (cosi si chiamava a quel tempo il testo) vinse il premio tra l’entusiasmo dei giurati e poi sopraggiunse Einaudi, Terra Matta, e il resto che conosciamo tutti.

Una cosa voglio aggiungere : io, nei quasi trentanni che ho tenuto con me questo dattiloscritto di mio padre, ho provato parecchie volte a trascriverlo e a renderlo piu’ accessibile. Per un non siciliano e spesso anche per un siciliano si tratta infatti di un testo veramente ostico e a volte impenetrabile e c’e’ da fare una gran fatica a decifrare l’intricata battitura piena di correzioni, agglutinazioni o mutilazioni di parole e frasi intere, e a districarsi in una straordinaria caoticita’ sintattica e lessicale, una specie di Finnegans Wake siculoproletaria insomma. Una volta, a Milano, poco dopo la morte di mio padre, provai anche a farlo leggere a una importante casa editrice questo testo complicato (l’unica volta che ho provato a far leggere l’originale per la pubblicazione) e la risposta fu: bellissimo, interessantissimo, affascinantissimo, ma impubblicabile. Tanto di cappello quindi ai curatori che sono riusciti a farne un qualcosa non solo di leggibile ma a quanto pare anche di piacevole da leggere (vedi il buon successo di pubblico che sta avendo) e tanto di cappello all’Archivio e a Einaudi che in questa pubblicazione ci hanno creduto fin dall’inizio…

Ritornando ora alla questione della lingua di mio padre: che lingua mai e’ la sua e come ci e’ arrivato?

Lui normalmente parlava il dialetto chiaramontano corrente, quello dei coetanei col suo livello di cultura o di mia madre, un po’ piu’ arcaico certamente del nostro

– noi figli, intendo, che appartenevamo ormai a una generazione gia’ abbondantemente contaminata dall’italiano scolastico e televisivo- ma tutto sommato si puo’ dire che il suo linguaggio apparteneva alla nostra stessa categoria. Il suo era infatti un eloquio assai ordinario, molto efficace quando era necessario ma sempre semplice e mai ricercato. Certo ogni tanto riusciva a saltar fuori con qualche battuta veramente appropriata o qualche osservazione arguta e persino profonda, e sopratutto sapeva ferire con la lingua, quando voleva, anche con ferocia (mia madre buonanima ne sa qualcosa); niente a che vedere, tuttavia, con lo straordinario e potente miscuglio espressivo che riesce consistentemente a tirar fuori nella sua pagina scritta.

La scrittura, e’ ovvio, e’ qualcosa di completamente diverso dal parlato. Uno, quando scrive, entra necessariamente in un’altra dimensione e usa come puo’ i modelli espressivi che ha imparato e che possiede.

Mio padre, da questo punto di vista, non possedeva quasi nulla. A parte l’alfabeto, che aveva imparato da solo, mettendo faticosamente insieme una appresso all’altra le lettere per fare la parola VIVERA…

Cito da Terra Matta, pag. 15: “ Cosi io, quanto vedeva il libro di mia sorella che antava alla scuola, mi veneva la voglia di cominciare a fare a,i,u…quinti cercava di amparareme qualche vocale e li numira. E cosi, piano piano, quanto una volta ho fatto il nome di un mio compagno di lavoro che si chiamava VIVERA…a me mi ha parso che avesse preso il terno!” …

A parte l’alfabeto, dunque, che aveva imparato in questo modo, il resto dei suoi modelli provenivano dalle fonti piu’ disparate: primo tra tutti il cunto parlato della nostra tradizione e quello dei cantastorie, che lui riesce pienamente a trasfondere in quella che lentamente viene configurando come la “sua scrittura”. Lo stesso vale per l’opera dei pupi e per altre rappresentazioni teatrali a cui occasionalmente avra’ assistito, come quella volta al teatro la Pergola di Firenze, per esempio, o nel teatro di Angelo Musco a Catania o al cinema…anche Toto’, perche’ no, negli anni cinquanta. A tutto questo miscuglio non scritto bisogna aggiungere la lettura di pochissimi libri (primo tra tutti il conte di Montecristo e gli altri romanzi d’appendice francesi, trovati in una cassa, quand’era malato in Africa, tipo Il Fabbro del convento o il visconte di Bragelonne, possibilmente pubblicati da Salani editore)…

cito da Terra Matta Pag 210- 211: “ e poi hanno ordenato di metterene tutte 40 in una crante baracca…e poi ci hanno portato una cassa di romanze, perche’ cosi chi sapeva leggere liggeva e ci passammo il tempo… e cosi io, alla notte, teneva questa cantela accesa e liggeva questo romanzo di Montecristo, e la nottata passava presto…”

Infine, naturalmente, bisogna considerare anche il linguaggio dei giornali, quello della radio e ultimamente persino quello della televisione. Il telegiornale lui pero’ lo continuava a chiamare “u comunicatu”, abitudine acquisita durante la guerra immagino.

Queste le conoscenze selvagge e occasionali, grossomodo, che aveva accumulato nel suo bagaglio culturale in una settantina d’anni d’esperienze, da queste soltanto poteva derivare le forme espressive che gli servivano per modellare l’incandescente materia grezza della sua intensa e complicata esistenza.

Nessuno certamente gli aveva insegnato i segni ortografici, per esempio, ne’ come si usano, o la grammatica, o come si mette insieme correttamente una frase o un periodo, o come si racconta con ordine e via discorrendo. Tutto questo deve aver costituito una scoperta continua e una delle fonti di quell’intenso piacere intellettuale che deve aver necessariamente provato nello scrivere. Alberto Asor Rosa, mi pare, ha gia’ notato una specie di impeto sperimentale nella scrittura di mio padre, come di un esploratore che si butta disperatamente alla scoperta di un territorio sconosciuto e strada facendo ne traccia la mappa, marcando i punti piu’ salienti per non perdersi, e provando persino ad arrivare ai confini piu’ estremi, finche’ non sopraggiunge la morte a interrompere il suo avventuroro tentativo.

Il tema da trattare l’aveva gia’ tutto davanti a se’

(o dietro di se per meglio dire): la sua vita, con tutte le implicazioni emotive che questo anche comporta.

Il resto lo deve aver messo insieme grazie al suo talento irruente e primitivo di narratore e forse anche grazie all’uso spregiudicato della macchina da scrivere. Una specie di work in progress si potrebbe anche definire certe volte il suo lavoro. Una sorta di canovaccio di cui conosceva l’inizio e cosa grossomodo doveva contenere ma i cui dettagli lasciava al caso e all’ispirazione del momento, e chi lo sa, persino ai capricci della sua macchina da scrivere. Verso quest’aggeggio sentiva senza dubbio un’attrazione particolare, cosi come per il telefono o la televisione.

Un esempio del modo in cui ogni diavoleria moderna operava sul suo senso di sfida e d’avventura possiamo per esempio trovarlo nell’episodio del trattore, quando lavorava nella Piana di Primosole, alle porte di Catania. Terra Matta, Pag. 172: “ cosi io, alla Domenica, mi restava nella masseria aposetamente per vedere se mi potesse imparare a quidare questo tratore. E cosi, io, restando solo, non penzava altro di stodiare come poteva fare per fare partire e come poteva farlo fermare, questo trattore, e come potello portare allavorare la terra. E cosi, piano piano, io mi aveva comprato uno manuali che mi l’aveva venduto uno micanico e in due domeniche mi sono poco a poco imparato a quidare…”

A rileggere e a correggere ci provava parecchie volte, specialmente nella fase piu’ tarda della sua attivita, basta dare un’occhiata alla seconda stesura del suo memoriale per rendersene conto. Ci sono negli ultimi quaderni periodi interi cancellati con delle xxxx o con degli “uguale” o con quello che capitava, sempre con la macchina da scrivere, rarissimamente a penna.

Questi tentativi di riscrittura, per via dell’assenza di spazio, finiscono spesso per accavallarsi uno sull’altro e alla fine non fanno altro che intorbidare ulteriormente il testo. Occasionalmente puo’ anche darsi che abbia buttato via tutta intera una pagina, per eccesso di correzioni, e l’abbia riscritta daccapo, ma io personalmente ne dubito, o molto raramente comunque.

Io credo che lui amasse procedere spedito e piu’ procedeva, piu’ imparava, piu’ s’organizzava, piu’ padroneggiava la sua tecnica, piu’ e piu’ spontanea e immediata gli veniva fuori la frase o l’espressione giusta. Una specie di miracoloso equilibrio stilistico che una volta raggiunto, a parte qualche caduta qua’ e la’, specialmente nella produzione piu’ tarda, riesce facilmente a mantenere lungo tutto il suo sterminato percorso narrativo. Alla fin fine, nel suo complesso, stiamo parlando qui di qualcosa come 3000 pagine dattiloscritte e tutte “a interlinea zero, senza un centimetro di margine superiore ne’ inferiore ne’ laterale” come si dice nella nota dell’editore. In quanto a pagine perlomeno, con la Recherche di Proust siamo li’, non vi pare!?

Il testo di Einaudi non puo’ naturalmente rendere al 100% la realta’ e l’imponenza di questa scrittura ma sicuramente ha centrato lo spirito e lo stile di mio padre narratore.

Uno scrittore immediato e potente che “pieno di coraggio” come avrebbe detto lui stesso si e’ buttato allo sbaraglio in un territorio certamente non suo ed e’ riuscito a creare un linguaggio peculiare e personalissimo che non e’ il chiaramontano che lui parlava correntemente e nemmeno Italiano, qualcosa che probabilmente sarebbe molto piu’ corretto chiamare “Rabitese”, una osservazione ho paura che qualcuno ha gia’ fatto…

Un’ultima cosa voglio aggiungere e questa non ha niente a che fare con lo scrittore Vincenzo Rabito. Mio padre era anche un ottimo padre e un ottimo educatore, mai autoritario e mai violento, ne’ a parole ne’ a fatti. Era tollerante e comprensivo al massimo con noi figli, e non solo perche’ ci voleva immensamente bene, ma sopratutto perche’ pensava correttamente che non si puo’ forzare qualcuno a diventare quello che non e’. Quante volte ho trovato scritto nel suo memoriale piu’ recente, nel quale spesso si occupa di me e delle mie vicissitudini esistenziali durante gli anni settanta: Giovannuzzo e’ sperto pero’ delle volte si meritasse una bastonata in testa! Eppure a me non diceva mai nulla, ne’ sotto forma di rimprovero ne’ tanto meno di comando. Al massimo si limitava a chiaccherare e a cercare di darmi consigli e quando io cercavo di convincerlo che sapevo il fatto mio e che cosi volevo veramente fare, alla fine si limitava a dirmi: fai chiddu ca vuoi e u signuri t’accumpagna…

Poi nel suo diario era capace di commentare piu’ o meno cosi: Giovanni ave la sua testa e non si ci puo’ fare niente… vuoldire che questa e’ la sua pianeta e come io ho imparato a vivere campando campando anche lui alla fine trovera’ la sua strada…

Poco prima di morire, nell’80 credo, quando mi venne a trovare a Milano, figlio sempre piu’ problematico e sempre meno sistemato, non una parola gli usci’ di bocca sulla mia situazione, sui miei progetti, sul mio futuro. Senza che io gli avessi chiesto nulla, prese semplicemente cinque o sei milioni dal suo libretto di risparmio del banco di Sicilia (credo che in tutto ne avesse una decina) e mi compro’ una macchina, una R4, in un gesto come dire di fiducia e di buona volonta’.

Io sto morendo, intendeva dirmi, prenditi questa mia benedizione e speriamo che come t’aiuto io anche la Madonna t’aiuta…

una roba del genere, insomma…

Ora non lo so quanti se ne trovano di padri alfabetizzati e supercolti che riescono ad avere e ad applicare una filosofia educativa del genere!

Cosi almeno la vedo io. Percio’ non solo sono orgoglioso e fiero di mio padre scrittore, adesso riconosciuto e quasi acclamato, ma sopratutto sono orgoglioso e fiero, come sono sempre stato del resto, di mio padre in quanto padre. E, per concludere in bellezza, vista la sede in cui ci troviamo, voglio anche onestamente riconoscere che nello stesso identico modo sono andato sempre orgoglioso e fiero del mio essere e del mio potermi chiamare chiaramontano!